Inaugurata l'11 luglio 2020 la nuova statua del Genio di Palermo, realizzata da Domenico Pellegrino e collocata all'Orto botanico di Palermo. L'opera, realizzata con il sostegno dalla Fondazione Tommaso Dragotto all'artista siciliano Domenico Pellegrino, è stata inaugurata alla presenza della ministra delle Pari Opportunità e della Famiglia, Elena Bonetti. La statua che si trova all'interno della serra tropicale, è in perfetta corrispondenza con il famoso "Genio" realizzato da Marabitti nel 1778 e collocato a Villa Giulia.
Nell’isola dalla storia millenaria, dove si sono susseguite innumerevoli civiltà e culture, il “Genio” protegge e racconta la storia di una città accogliente e cosmopolita, Palermo. Il “Genio”, con il suo malinconico lato d’ombra che lo esprime, diviene l’irresolubile mistero che, mai stanchi, i cittadini palermitani continuano da sempre a interrogare, in un percorso tra sacro e profano pervade la rappresentazione della storia della città di Palermo, nella cui rap- presentazione il "Genio" , come nume protettore profano, si affianca a Santa Rosalia (Santa protettrice della città) cogestendo la protezione della città.
Nel realizzare la nuova statua del Genio di Palermo, Pellegrino si è fortemente ispirato al luogo che lo ospiterà. “La mia statua parla di accoglienza e di speranza, guarda al futuro con oKmismo e pone l’accento sulla conoscenza e la cultura che arricchita dalle contami- nazioni di diversi popoli. “
Come un dio del mare, la statua al centro della scena si trova seduto su una fontana, la sua armatura riprende alcuni dettagli botanici e architettonici presenti all’Orto. I capelli raccolti che ricordano in alcune ciocche le radici dei ficus secolari, sono sormontati da una corona. Le braccia sorreggono il serpente che si nutre dal suo petto. Il braccio sinistro sorregge la testa del serpente e da sotto sbuca la seconda figura: il futuro, rappresentato da un bambino che riprende i putti giocosi del Serpotta. Il bambino guarda attento il Genio, come se rubasse fa- cendone tesoro la sua conoscenza. Alla destra una Rosalia, bambina, coronata di rose, che lo avvicenderà, che gioca con il cane, simbolo di fedeltà. L’intera scena si colloca su una roccia, che l’artista ha realizzato ispirandosi alla pietra arenaria di una cava siciliana da dove veniva estratto il materiale da costruzione delle parti architettonica di molti palazzi siciliani.
L’opera è stata donata dalla Fondazione Tommaso Dragotto, dedita a progetti di natura culturale e di valorizzazione ambientale.
“Ho voluto donare alla città di Palermo un’opera in grado di esprimere i suoi valori fondanti. Accoglienza, integrazione, uguaglianza non solo si pongono da sempre come codici identificativi dell’habitus cittadino, ma diventano, in questo particolare momento storico, elementi imprescindibili di rinascita sociale e culturale, nel segno di una rinnovata sostenibilità umana.” Dichiara Tommaso Dragotto, presidente dell’omonima Fondazione, e continua: “Ri- tengo che l’Orto Botanico, sede permanente dell’opera, sia il luogo più indicato per accoglie- re, nel costante confronto della natura tra tradizione e innovazione, questa straordinaria scultura che l’arte di Domenico Pellegrino ha forgiato in modo così espressivo e potente.”
“L’idea di porre un nuovo Genio di Palermo all’interno dell’orto botanico, luogo dove più che in ogni altro si realizza il fatto che Panormus…. alienos nutrit, nasce dalla volontà di realizzare un percorso immaginario che include tutte le vocazioni della città - mare, architettura, giardino, paesaggio, arte, cultura e ricerca scientifica. Un vero ‘Percorso del Genio’ che dal mare, attraverso la Villa Giulia, con la sua storica valenza pubblica, incontra il Genio di Marabitti, entra all’Orto Botanico attraverso il portone monumentale appena restaurato, incontra il Paride musico di Nunzio Morello e attraverso le architetture della Serra Carolina (1859) rag- giunge la Serra Tropicale, dove il nuovo Genio dialogherà con il Genio di Marabitti, sullo sfon- do della sede della ricerca scientifica di Unipa” racconta Paolo Inglese, direttore del SiMuA, sistema universitario museale di Ateneo.
video making of di Giuseppe Mazzola
nota critica di Aurelio Pes
I nutritori
“Essere lacerato vuol dire essere liberato” Lao-tse “Il libro della norma e della sua azione”
a Valentina Bruno
Entri nello studio di Domenico Pellegrino, convinto di trovarti dinanzi al consueto artista dei nostri giorni, privo di memoria e attento ai dettami del mercato, e ti trovi difronte a un homo faber che, individuandosi come centro di azione e non di mera interpretazione degli eventi artistici, modifica la realtà che lo circonda, capace come è di indagare, oltre le potenzialità che gli sono congeniali, persino nel nebuloso mondo ormai trascorso o in divenire.
E questo sin dai suoi inizi, che si ispiravano alle tecnologie più sofisticate, come ad esempio lo scanner, in realtà tavolo di vivisezione, dove era il corpo umano l’affascinante rebus da decifrare.
Scelti dunque i modelli, indifferentemente maschili e femminili, Domenico li sottoponeva alle scansioni febbrili delle luci calde e fredde che viravano il colore; o all’uso di lenti che ne deformavano le sagome, per accorgersi con sorpresa che lo scanner, tutt’altro che inerte, reagiva alle diverse cromie e tipologie dei corpi, sia biondi o bruni, tatuati o pelosi, trasponendoli in una fantasmagoria di colori, in una estrema e quasi voluttuosa deliquescenza, che testimoniavano appunto il trascorrere dell’ordinario nel rarefatto mondo degli archetipi, dei totem, dei tratti maculati della Sindone.
Qui le figure, come nei mosaici bizantini, levitando, assumevano l’aspetto di esseri pietrificati nel centro del loro movimento, in tal modo originando le arcane atmosfere che è lecito rinvenire in certi brani sontuosi dell’Endimion di John Keats.
Nel contempo, chimeriche bellezze, evidenziandosi, attingevano più inedite proporzioni, elementi solidali si dissociavano, e masse carnose, quasi in assenza di gravità, si consolidavano, inalterabili. Mentre personaggi variegati, nelle tregende dei corpi, nell’allucinazione degli specchi, si mutavano in cellule del cosmo che si corrompono e rinascono, per infine reintegrarsi in nuovi cicli vitali.
Come foglie che, ingiallendo, si adagiano nel grembo umido della foresta, e l’alimentano e la preparano a nuove, più splendenti fioriture, allo stesso modo questo universo appena descritto, tutt’altro che obliterato, ancora oggi effonde la propria essenza nel nuovo ductus che con tenaci vincoli imprigiona l’anima di Pellegrino, donando consistenza al suo viaggio avventuroso dall’universo virtuale della macchina, a quello concreto della mano, che da sempre esplicita, nell’homo sapiens, un’ operatività unica rispetto al mondo animale, senza per questo vincolarlo alla ferale primazia antropometrica che prevarica tutte le altre creature.
Da ciò, il nuovo intento di Pellegrino, che lo spinge oggi a un vigoroso corpo a corpo con il Genio di Palermo, l’antica statua nei secoli più volte replicata, che arreda le piazze e le dimore istituzionali della nostra città e che con il suo malinconico lato d’ombra che lo esprime, diviene l’irresolubile mistero che, mai stanchi, continuiamo da sempre a interrogare.
Uno dei manufatti in marmo che più lo evidenzia, è quello d’“un vecchio barbuto, assiso su una roccia e abbigliato con una armatura romana. Tra le sue gambe è avvinghiato un serpente che sale lungo il suo corpo e si nutre dal suo petto” (Nadia Seidita).
Ai piedi è incisa l’iscrizione: “Panormus conca aurea suos devorat alienos nutrit”; che Leonardo Sciascia, un po’ troppo alla lettera, traduce: ”Palermo conca d’oro divora i suoi figli e nutre gli stranieri”; quando sarebbe stato forse più opportuno che il testo fosse così interpretato: “Palermo conca d’oro nutre il suo prossimo e divora i propri beni”.
Frase che trasforma il Genio, da cannibalico massacratore dei suoi simili, in un sorta di asceta taumaturgo, a metà del guado fra paganesimo e cristianesimo, sollecito tuttavia verso le moltitudini (alienos) persino a scapito delle proprie sorti (suos).
Di conseguenza, la corona che gli cinge il capo non è soltanto un arredo genealogico, affermando invece con forza il dominio della mente sull’operare degli uomini, aldilà dei basici interessi di tribù e di clientele.
Mentre l’antica corazza che egli indossa, sembra alludere a un periodo storico in lento transito verso il nulla, come dimostra il serpente che lo avvinghia, simultaneamente fiume dove tutto scorre, tempo dove tutto frana, che con lingua bifida va segnando il crepuscolo delle vicende terrene.
Se tale ricostruzione è quella esatta, ulteriori archetipi di riferimento del Genio non potranno non essere, oltre il sempre citato Saturno, che sbrana appunto i propri figli, Francesco d’Assisi, che nel donare ciò che possiede, si depaupera; e San Paolo, un tempo legionario romano, divenuto frattanto, da uomo in armi, il più fervente costruttore e difensore dell’ecclesia cristiana, da lui un tempo ferocemente perseguitata.
Ed è altresì per questo che Santa Rosalia, che lo avvicenda, coronata a sua volta di rose, è con l’ausilio della preghiera, e con il sacrificio di se stessa, che dall’alto del monte Pellegrino riesce ad allontanare la peste da Palermo, inchinandosi nel contempo sollecita dinanzi al Genio morente, o in estinzione, non soltanto per umana pietà, bensì per riconoscerne il ruolo profetico che l’ha resa consapevole del proprio destino, in quanto protettrice delle fonti di vita ed efficace contrasto alla cruenta palingenesi che distingue la temporalità della storia.
Chiusa in una grotta rorida di acque lustrali, circondata da un paesaggio “ou la pampre a la rose s’allie” (Gérard de Nerval) la fanciulla divina è in solitudine che si nutre di cibi meravigliosi come, al mattino, dei raggi puri del sole; o dei vapori eterei recati dai venti marini; o della malva e dell’asfodelo che, secondo i pitagorici, si possono consumare crudi, senza la violenta torsione della cottura. Suo emblema perenne è la rosa, magnificata come fiore dei fiori, perché con la sua forma e il suo profumo, stordisce ogni altro fiore. Ed è proprio dalla candida rosa che Dante fa sbocciare la visione ultima della Divina Commedia; e ciò, mentre le cattedrali attraverso i rosoni s’inondano di luce meridiana; e persino la spada, simbolo infausto del potere, cede alla grazia del labirintico bocciolo, il quale, oltre che immagine araldica dell’organo generativo femminile, come tale diviene:
Luce intellettüal, piena d’amore; amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogne dolzore. (Dante – Paradiso)
Se dunque, ricapitolando, attraverso lo scanner Pellegrino restituiva senso al sacrificio rituale che egli andava operando sulla realtà, scomponendola, rammendandola e apprestandola al nostro sguardo con tratti inediti; è altrettanto vero che tale procedura è poi all’origine del simbolico smembramento del capro, sostrato ineludibile della drammaturgia classica e del rito cristiano; i quali da sempre presiedono il nostro tentativo di ricostituire la macchina logorata dell’universo; allo stesso modo di Robert Musil, che in Moosbruger, autore anch’egli di squartamenti, rinviene in modo oscuro quelle alterazioni dell’esistere che egli medesimo perseguiva nel suo romanzo più monumentale: L’uomo senza Qualità.
Scanner, smembramento e ricomposizione dell’immagine scempiata sono, peraltro, gli ingredienti procedurali dell’ultima intrapresa di Domenico Pellegrino: la quale dunque si enuclea, come accennavo prima, intorno alla gestazione laboriosa di una nuova statua del Genio, a lavoro ultimato da collocare, secondo coordinate spaziali relative al sorgere e al declinare degli astri, all’interno del luogo magico per eccellenza: l’Orto Botanico di Palermo.
E ciò, grazie anche al ripristino da lui voluto delle antiche tecniche del modellare l’argilla che, scopriamo con sorpresa, sono quasi del tutto simili a quelle delle tecnologie sofisticate, consustanziali all’artista. Paradosso che dà rilievo al pensiero di Edmund Husserl, per il quale è ogni nostro operare profondo:“Un tornare indietro da cui esso procede, e un andare avanti verso cui sempre internamente si spinge”. Ché infatti, i materiali per donare un corpo solido alla forma chiusa che protegge l’essere dalla degradazione e dispersione e dissoluzione, non casualmente consisteranno di ben mille chilogrammi di argilla – da disporre, di continuo inumidita, sulla sua struttura interna in ferro di traliccio – argilla che si comincia poi a modellare con mirette e strumenti a mano, progettati dall’autore. E’ ciò mentre concresce il calco in gesso della figura, colorata di vernice rossa nelle concavità interne, allo scopo di preservarla da ulteriori interventi manuali a togliere, che potrebbero compromettere la coesione dei materiali usati. Smembrata, infine, pezzo a pezzo, e ricucita con tasselli nel luogo dove troverà ricetto, la statua sarà in ultimo rivestita di stucco misto a polvere di marmo e resina che, opportunamente levigato, le donerà un serpottesco, adamantino candore, come di un’alba che dischiude il giorno, o, se preferite, come l’opera di Pellegrino appena adempiuta, che sarà infine installata al centro di una conca d’acqua, in cui la sua epica struttura si rispecchierà. Opera che finisce, in tal modo, per mostrarsi come espressione eterna della potenza divina, in attesa forse d’una fanciulla coronata di rose che, riconoscendo nel Genio il suo spirito guida e il suo Virgilio, lo porterà con sé nei prati sempreverdi dell’Eliso.
Ed ecco che sui fianchi della statua, a vortice, tornano allora ad atteggiarsi una bambina che, presaga, si adorna di rose, subito duplicata da un’altra se stessa, come in certi cori tragici, testimone muta degli eventi; quindi è il serpente, eco del Laocoonte, che addenta il cuore del Genio; la corazza, infine, con la cornucopia, residuo ultimo dei giorni di trionfante paganesimo.
Sovrasta tutto il volto indomito del Genio sconfitto, e tuttavia redento dalla nuova fede la quale, penetrandolo, sembra in sé riecheggiare l’idea stoica della morte, liberalmente accolta, in quanto segno ultimo della riconquistata sovranità dello spirito, sulle macerie d’un tempo altrimenti inerte e senza storia.
Aurelio Pes
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